“Come doveva essere bello il mondo” pensava
con un rimpianto ironico, quando un marito tradito poteva gridare a sua moglie:
“Moglie scellerata; paga con la vita il fio delle tue colpe” e, quel ch’è più
forte, pensar tali parole; quando al pensiero seguiva l’azione: “Ti odio” e
zac! Un colpo di pugnale: ecco il nemico o l’amico steso a terra in una pozza
di sangue; quando non si pensava tanto, e il primo impulso era sempre quello
buono; quando la vita non era come ora ridicola, ma tragica, e si moriva veramente,
e si uccideva, e si odiava, e si amava sul serio, e si versavano vere lacrime
per vere sciagure, e tutti gli uomini erano fatti di carne ed ossa e attaccati
alla realtà come alberi alla terra. A poco a poco l’ironia svaniva e restava il
rimpianto; egli avrebbe voluto vivere in quell’età tragica e sincera, avrebbe
voluto provare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi a quei sentimenti
illimitati… ma restava nel suo tempo e nella sua vita, per terra.
Queste parole, quelle di Alberto Moravia ne
“Gli indifferenti”, se ben recepite e assorbite a pieno, sono in grado di dare
uno schiaffo al mondo con un’eleganza straordinaria, risvegliandolo dal suo
voluto e studiato torpore. Nel romanzo, infatti, il corpo di Michele (il protagonista
del passo che mi ha stregato) si libera della sua funzione originaria, ovvero
di essere specchio esteriore di un’anima interiore, per assumerne quella
passiva di un’arena, un campo di battaglia nel quale i lottatori sono il
Michele autentico e un Michele utopistico. Il protagonista sente e subisce il
peso delle costrizioni sociali, è completamente schiacciato dal dover essere che gli impone di
indignarsi per determinati affronti alla propria persona, di innamorarsi
secondo un percorso prestabilito, di frastornarsi per quella “sudicia
avventura” che vedeva sorella e madre amanti del medesimo uomo… ma Michele non
prova nulla, se non apatia, semplice e odiosa indifferenza. Quello che più
attrae e, allo stesso tempo, fa rabbrividire è che quest’indifferenza, questa
incapacità di comprendersi e riconoscersi,
è tremendamente familiare.
Viviamo in un mondo in cui i rapporti
umani, più che basarsi su reali, travolgenti e spesso pericolose passioni, si
fondando su studiata, calcolata e scientifica metodicità: la spontaneità e il
rischio lasciano il posto alla sicurezza. Non credo servi andare molto lontano
per ritrovare quell’età tragica e sincera,
basterebbe tornare al tempo dei nostri genitori, nei mitici anni ’70 e ’80,
quando, se incontravi il possibile amore della tua vita, dovevi cogliere al
volo l’occasione, senza aspettare di potergli inviare una richiesta d’amicizia
su facebook; quando bastava l’accenno di uno sguardo per scatenare le fantasie
più inconfessabili; quando la sera ci si
ritrovava tutti in piazza, sulle ginocchia della nonna per sentirla raccontare
storie dell’orrore e nessuno sentiva il bisogno di dover accendere la tv;
quando era impossibile vedere bambini che non avessero i pantaloni all’altezza
delle ginocchia macchiati col verde dell’erbetta… un mondo reale, concreto e
allo stesso tempo magnifico e cristallizzato, la cui estrema vicinanza e il
vivido ricordo rendono quest’indifferenza ancora più insopportabile.
Ilaria
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